Art & Lies
There's no such thing as autobiography. There's only art and lies.
lunedì 3 giugno 2013
La difficile riflessione
sabato 3 novembre 2012
Un altro tempo
E che tutto questo arrivò tanto dopo, dopo il 1922, quando già la Terra Desolata di Eliot e i Cantos di Pound erano stati scritti, quando la prima terribile Guerra era già stata e li aveva sconvolti, sfoltiti, cambiati. E che quando invece Vanessa e Dora ritraevano gli amici nella casa di Bloomsbury e Virginia e Vanessa davano cene, erano ancora le sorelle Stephen, ché avrebbero solo poi sposato Woolf e Bell, eppure condividevano il nuovo, e l’arte, con alcuni tra i più grandi pensatori del secolo, alla pari, con la stessa dignità dei compagni di sesso maschile in un contesto tutto volto alla ricerca di una nuova rappresentazione del vero. Tutte cose che peraltro Lea Vergine conosce bene visti i suoi studi, i suoi lavori. Ma che purtroppo non riesce a comunicare e così, tutto questo, appunto, lo dovrete solo “provare a immaginare.”
venerdì 18 maggio 2012
Antonio Pagliaro, La notte del Gatto nero
mercoledì 18 aprile 2012
Sliding dolls
lunedì 26 marzo 2012
Aspettando i Tartari
Ho letto in diverse critiche che nel Deserto dei Tartari, di Dino Buzzati, si parla di esilio, di solitudine. Non sono completamente d'accordo. Sì, si parla di confino, che diventa esilio, qui, perché la Fortezza Bastiani, nella quale è confinato Giovanni Drogo, è lontana da tutto, si potrebbe dire lontana dalla vita. Si parla di solitudine perché Drogo, anche quando può scambiare qualche parola coi compagni, è comunque solo e le parole, i dialoghi, sono vuoti e non portano a nulla.
Ma il sentimento che io vi ho trovato, più forte di qualsiasi altra cosa, è l’attesa. L’immobilità e l’attesa. E in questo ho trovato incredibili somiglianze con la poetica beckettiana. Mentre ne parlavo, un amico ha suggerito un possibile Aspettando i Tartari, e devo ammettere che sarebbe un titolo alquanto calzante.
Certo, si potrebbe obiettare che Aspettando Godot fu composto nel 1956, mentre Buzzati scrisse Il deserto dei Tartari nel 1940, ma io non sto parlando di copia, di ispirazione di un’opera dall’altra. Sto parlando di un comune sentire, negli stessi anni, qui come altrove, della condizione dell’uomo come impotente, circondato dal nulla, anzi, sepolto nel proprio destino, cementato, come la protagonista di Happy Days, di Beckett, sempre più sprofondata nel palcoscenico e blaterante un monologo che dovrebbe essere dialogo, dato che alle sue spalle si trova il marito, che però legge il giornale e non le rivolge mai nemmeno uno sguardo. Drogo è, allo stesso modo, sepolto e cementato nel suo destino – la Fortezza – e per sopravvivere si crea delle illusioni, delle false speranze, si crea un’attesa di un qualcosa che non arriverà perché non esiste – i Tartari quindi come Godot.
Come per il salice di Godot la scena è sempre la stessa, la Fortezza, la Ridotta e nient’altro. E i personaggi parlano fra di loro, aspettano, sperano che il nemico arrivi, che si faccia una guerra, ma ciò che si dicono non è di nessuna importanza, riempie degli spazi e nient’altro, al pari dei dialoghi di Estragon e Vladimir. Mi si permetta un’ultima analogia, forse un po’ azzardata. Nel 1940 Buzzati sceglie di far indossare ai suoi personaggi delle divise militari, sebbene la guerra non la faranno mai. Nel 1956 Beckett vestirà i suoi due personaggi da clown. Si tratta pur sempre, in qualche modo, di uniformi, di vincoli entro i quali i personaggi sono inquadrati e devono muoversi. Come i militari di Buzzati non fanno la guerra così i clown di Beckett non fanno ridere, e in questo modo non solo le aspettative dei personaggi sono tradite ma anche quelle dei lettori (o spettatori).
Alla fine, però, alla Fortezza i nemici arrivano, proprio quando Drogo non sarà più in forze per affrontarli e l’unico pensiero sarà un’allusione al suicidio, come il tentativo di Estragon e Vladimir che però rimanderanno, come sempre, all’indomani.
Mi è davvero piaciuto: per la prima volta ho letto un romanzo di un italiano in sintonia col sentire europeo, sebbene la novità della poetica sia mascherata in uno stile tradizionale che potrebbe ingannare ad una lettura veloce e superficiale. Eppure lampi di novità sono visibili, come l’inizio del capitolo 17:
Fino a che la neve sulle terrazze della Fortezza diventò molle e i piedi affondavano come nella melma.
Un inizio in medias res che non potrebbe farci capire meglio che tutti lunghi mesi dell’inverso sono trascorsi, e che nulla è accaduto. Un procedimento a togliere, così deliziosamente modernista. Sono tanto poco abituata a leggere buoni italiani che più volte, nel corso della lettura, mi sono chiesta chi fosse il traduttore, per poi schiaffeggiarmi moralmente da sola. Probabilmente gran parte degli italiani hanno già letto e magari riletto quest’opera. Chi non lo avesse ancora fatto lo faccia, non se ne pentirà.
lunedì 13 febbraio 2012
V. Woolf, Notte e Giorno
Letto e recensito nel 2004... quanti anni, quante parole in mezzo.
Una lettura difficile e forse per questo poco nota e poco indagata. Non per lo sperimentalismo, quasi assente in queste pagine, ma per la difficoltà di penetrare nella compattezza delle coscienze narrate dalla Woolf.
La storia, semplice, come sempre, è una storia d’amore, in apparenza, di conoscenza di sé, di fatto. Katharine Hilbery, giovane donna dalla bellezza romantica e nipote di un celebre poeta inglese è la protagonista alla ricerca di sé. Da questo punto di vista si può, con un azzardo, considerare un Bildungsroman, poiché Katharine nella prima parte del romanzo si cerca ma svogliatamente, subisce le emozioni altrui con la forza della propria ragione, un raziocinio raffinato che poco si addice ad una donna dell’alta borghesia quale lei è. Si fidanza con William Rodney, giovane aspirante letterato, innamorato più dell’aura romantica che ella infonde che di ciò che lei è in realtà, e stringe una particolare amicizia, che inizia in forma di astio reciproco, con un giovane avvocato squattrinato di un quartiere di periferia, Ralph Denham, il quale non tarderà ad innamorarsi di lei.
Il racconto indugia sui loro rapporti, complessi e irrazionali quelli fra Ralph e Katharine, imposti, falsi e superficiali quelli fra Katharine e William, che si andranno a concludere in maniera prevedibile, perché non è il plot ciò che interessa la narratrice. Così il romanzo, che per le tematiche di intrecci amorosi potrebbe ricordare un’opera di Jane Austen, se ne distanzia per l’analisi dettagliata e affatto umoristica che la Woolf compie sulle coscienze dei suoi personaggi. Katharine finirà col comprendere che il suo amore è per la matematica e non per la poesia e troverà in Ralph un animo disposto ad accettare questa sua “propensione alla bruttezza”, come la definisce sua madre. William troverà una donna pronta alla totale abnegazione, a pendere dalle sue labbra e a donare amore accettando di venire istruita.
Sullo sfondo le lotte per il suffragio femminile (il romanzo esce nel 1918, anno in cui le donne ottengono il diritto al voto in Inghilterra), portate avanti da un personaggio affascinante, Mary Datchet, che finirà col preferire il lavoro all’amore (ripeto, siamo nel 1918, non era una scelta facile né tantomeno comune); il graduale sfaldamento della borghesia, aggrappata a falsi valori destinati a scomparire; le incomprensioni fra i sessi, tanto più complesse in anni in cui la donna e l’uomo erano davvero opposti come la notte e il giorno.
Un romanzo che è un sottilissimo e delicato gioco di luci e ombre, di opposti che si attraggono e si respingono reciprocamente. Lo stile è perfetto, come sempre. Solo il ritmo è pesante da portare avanti e si avverte il tentativo di ricerca, quello sforzo di dare forma a mille pensieri che arriverà a compimento solo più tardi.
Un’opera complessa, in realtà, che mi sento di consigliare solo a chi già ama e conosce Virginia Woolf, poiché poco ha a che fare col puro sperimentalismo di Al faro, Mrs. Dalloway o Le Onde.
venerdì 10 febbraio 2012
Nonsolo Virginia
Chi sono gli intellettuali? Come si riconoscono? Nel suo piccolo e intelligente gioiello di humour A caccia di intellettuali, Leonard Woolf descrive 5 specie di intellettuale:
1. Altifrons altifrontissimus
2. Altifrons aestheticus var. severus
3. Altifrons frankauensis
4. Pseudoaltifrons intellectualis
5. Pseudoaltifrons aestheticus
Già i nomi sono uno spasso. Ogni specie di intellettuale elencato ha, secondo Woolf, un diverso rapporto con l’opera d’arte, con l’intelletto, con le emozioni, con la lettura.
La base della discussione è il valore di un’opera d’arte. Domanda più che attuale: un capolavoro è un’opera letta dal 99% dei lettori o un’opera letta da pochi altifrons ma destinata a durare in eterno? E soprattutto, le più grandi opere letterarie della storia (La Divina Commedia, l’Eneide, Alla Ricerca del tempo perduto… per intenderci) sono scritte per divertire il pubblico? E il pubblico si diverte leggendole?
La risposta chiaramente è negativa a tutti e tre i quesiti, ma Leonard si interroga e cerca questa risposta come cercasse una rilevanza scientifica a qualche esperimento che si trova bell’e fatto sul tavolo. Chiaramente nessuno legge la Commedia per cercarvi storie e personaggi dilettevoli, per passare una serata in relax con una lettura accattivante. E soprattutto, chiunque è in grado di definire la Divina Commedia come una delle maggiori opere letterarie mai scritte, ma il 99% di queste persone non l’ha mai letta fino in fondo e il 95% non l’ha probabilmente mai nemmeno tenuta fra le mani. Di contro ci sono le opere degli autori best-sellers, che in una settimana sono alla terza edizione ma dei quali si sarà persa ogni traccia nel giro di pochi anni.
Davvero bella, poi, la distinzione fra divertimento dovuto alla storia e divertimento intellettuale, quale si ha solo dai classici e dai capolavori che richiedono, però, anche più fatica. Ma Leonard qui cita Jane Austen, che scrisse dei capolavori profondi e al contempo fruibilissimi dimostrando che letteratura alta non è sinonimo di incomprensibile o noioso.
Aggiungo una riflessione personale, che emerse all’inizio del mio dottorato.
Cos’è la letteratura? Come la riconosco da una buona opera letteraria, divertente e di successo?
La letteratura punta sempre a migliorare l’uomo, ha questo obiettivo implicito o esplicito, indagare l’animo umano al fine di migliorarlo, il resto è semplice lettura.
Facile, non è vero?