lunedì 3 giugno 2013

La difficile riflessione

Consigliavo poco fa Un cuore così bianco, di Javier Marìas a un'amica-della-rete e mi è tornato in mente questo appunto di lettura, che mi spiacerebbe andasse perso perché fu una bellissima lettura. Che sia una scusa per ricominciare a inserire le mie recensioni in questo luogo senza luogo?


Ci sono libri che ti arrivano per caso, capitano semplicemente nella tua vita, un regalo, un titolo o una copertina accattivanti; altri che scegli, fra più titoli, fra più autori fai i tuoi conti e scegli proprio quello; altri ancora invece li cerchi, prima ancora di sapere che esistano.

È così che ho letto Un cuore così bianco: cercavo un autore spagnolo da conoscere, data la mia totale ignoranza in materia di letteratura ispanica e il mio desiderio di farmi una seppur minuscola cultura. Mi sono rivolta a un amico, docente di letteratura spagnola alla Statale di Milano. Non ci ha pensato un attimo: “Marìas. Xavier Marìas. Corazòn tan blanco è un romanzo meraviglioso. Oppure Domani nella battaglia pensa a me”, del secondo mi raccontò l’incipit, il quale mi affascinò a tal punto che il giorno dopo ero al Libraccio, (dato che era temporaneamente introvabile) a comprare una copia in un’edizione rilegata in buono stato e lo lessi con sorpresa e fatica, amando la sua densità e stupendomi della sua bravura. Rimaneva Corazòn tan blanco da trovare e leggere. Mi aveva detto che il titolo (“meraviglioso”, avevo detto appena lo ebbe pronunciato) era un verso del Macbeth, di Lady Macbeth ed io adoro queste strizzate d’occhio ai geni che ci hanno preceduto. Non volli nemmeno avere un’idea della trama. 
Che poi la trama in Marìas potrebbe non esistere, sono le sue parole, la sua abilità, i suoi verbi e la sua punteggiatura (di cui fa un uso magistrale e impareggiabile) a tessere trama e ordito della sua pregiata narrazione. Un cuore così bianco è l’analisi dell’amore, sentimento quanto mai complesso che implica la fiducia, il desiderio della conoscenza dell’altro e la paura che ciò può comportare. Un rapporto intenso e reale quello del narratore con la moglie, sposati da poco e spesso lontani per lavoro. Altre storie si sovrappongono spesso, altre donne e altri uomini senza nessuna importanza, semplici simboli che aiutano a tracciare il proprio cammino perché aiutano e comprenderci. Marìas ci narra, come sempre, un turbamento; ma oltre a narrarlo lo sviscera, ne va ad ispezionare le sfumature, le sottili diramazioni che si insinuano nelle profondità dell’imperscrutabile animo umano. E lo fa con tocco colto, raffinato, mai retorico, mai pedante. Tutto ciò che leggerete in Marìas avrà il peso della cultura, della conoscenza e della tradizione e la leggerezza del nuovo, del mai detto. La postilla dell’autore stesso che si trova in chiusura dell’edizione Einaudi parla proprio dell’atteggiamento dei contemporanei verso la letteratura, un atteggiamento distruttivo, che vede tutto come già detto e considera morta la letteratura. Marìas rilancia un’idea positiva, realistica più che ottimista, spiegando che la letteratura è sempre servita e serve tutt’ora a riflettere. È esattamente questo che fa Marìas. Tutto viene analizzato talmente in profondità che vi scoprirete a riflettere su aspetti di voi, della vostra vita, di cui ignoravate addirittura l’esistenza e queste raffinate riflessioni sono accompagnate da descrizioni di tipi umani quanto mai minuziose e caratterizzanti, un’abilità che denota la sua natura osservatrice, che è propria di tutti coloro che hanno compreso che la conoscenza viene dell’ascolto e dell’osservazione di ciò che li circonda.

sabato 3 novembre 2012

Un altro tempo

Oggi siamo stati al Mart di Rovereto, per “godere” della mostra ideata da Lea Vergine “Un altro tempo. Tra Decadentismo e Modern Style”.

Se andate sul sito del Mart la mostra è presentata in primo luogo attraverso un Pinterest che fa sognare. Poi vi dicono:

Provate un po’ a immaginare una situazione così: Virginia Woolf ricama a punto-non-so-che-cosa lo schienale di una seggiola, su disegno progettato da Duncan Grant mentre sua sorella Vanessa Bell disegna per lei la copertina di The Waves intanto che Percy Wyndham Lewis, tra un Blast e l'altro, dipinge il ritratto di Edith Sitwell fotografata con i suoi fratelli da Cecil Beaton.

Ecco, forse ci si dovrebbe soffermare sulla scelta delle parole “provate un po’ a immaginare”. Perché è quello che dovrete continuare a fare: immaginare, dato che alla mostra non vedrete nulla di simile. Io conosco poco l’arte, ma conosco bene Virginia Woolf, e Bloomsbury, e Vanessa Bell. E a parte il fatto che deve essermi sfuggita, durante la lettura dei 5 volumi dei diari e degli altrettanti volumi di lettere, questa passione di Virginia per il ricamo, trovo che la mostra non abbia affatto reso giustizia a quello che fu un movimento di totale rinnovamento intellettuale, culturale e sociale e che partì proprio dall’arte.

“Un altro tempo” è composta da sculture, dipinti e disegni, ma anche da oggetti d’uso, grafica editoriale, libri, fotografie e arredi. Sono oggetti quasi del tutto sconosciuti fuori dall’Inghilterra, e soprattutto esposti ora per la prima volta.
L’interesse di queste opere non sta solo nel loro valore artistico, ma anche nella capacità di evocare emozioni e sensazioni che appartengono appunto a “un altro tempo”.

Sì, oggetti quasi sconosciuti, qualche sedia, bozzetti di tappeti, paraventi, tavolini, due sdraio realizzate da Ezra Pound. E poi foto, tante foto, ma già note a chi frequenta questi nomi. E qualche quadro, sì, ma solo nella prima stanza si vedono pezzi interessanti, come il celebre ritratto di Lytton Stratchey a opera di Dora Carrington o l’autoritratto di Roger Fry.
Quello che più mi colpisce, alla luce di quanto ho visto alla mostra, è quanto segue:

“Una mostra non si fa solo per guardare e vedere ma anche per sapere” scrive Lea Vergine: l’ambizione di “Un altro tempo” è quella di portare a conoscenza del pubblico un mondo mai considerato dalla storia dell’arte, ed oggi in parte scomparso, in cui le connessioni tra gli artisti sono spesso sorprendenti.

Ecco: mi spiace, ma no. Non ci siete riusciti. Chi non sapeva nulla di Bloomsbury continua a non saperne nulla dopo la mostra. Che manca di didascalie, fornite su di un piccolo foglio in un angolo della stanza, recanti solo autore e titolo dell’opera, e che lo spettatore si deve ricostruire (col risultato che alla terza stanza la gente nemmeno curiosava più e tirava dritto). Non una parola d’introduzione, non una riga di spiegazione.
Forse l’audioguida era fondamentale? Allora datela in automatico, o quantomeno caldeggiatela al momento dell’acquisto dei biglietti. Io non volevo distrazioni, volevo perdermi nelle foto, nelle lettere, nei bozzetti, negli oggetti di Virginia, Vanessa, Duncan, Clive, Wyndham, Ezra, Tom. E invece cercavo, speravo e trovavo ben poco. Quante cose da raccontare su quel gruppo, quanto hanno cambiato il mondo quei ragazzi che sedevano per terra e bevevano caffè al posto del tè, e mangiavano su tavoli senza tovaglie. Ma nulla, nessun riferimento, se non due (peraltro splendidi) menù di due cene dell’Omega Workshop. Messi lì senza contesto, così che vanno quasi persi.

Si parla anche di un

allestimento d’eccezione, ideato da Antonio Marras e curato da Paolo Bazzani, avrà il compito non di offrire un supporto alla mostra ma piuttosto di far rivivere questo “altro tempo” nell’esperienza soggettiva del visitatore. L’idea di Marras è quella di inserire le opere in un contesto estetico che evoca una casa londinese di Bloomsbury. Entrando in mostra attraverso uno stretto corridoio, si accede ad una serie di stanze dove sfondi e mobili sono verniciati con una curatissima palette di colori caldi e “molto polverosi”, secondo le indicazioni di Marras. Questo allestimento darà al visitatore la possibilità di immaginare e ricostruire quel tessuto di relazioni che rappresenta il vero cuore di “Un altro tempo”.

Sì, le stanze sono davvero belle, tutte monocromatiche, a tinte interessanti, calde, che riescono a ricordare al contempo Marras e Londra. Ma i contenuti? I riferimenti a ciò che fu per loro il 1910, quando “in or about December 1910 human nature changed” (come scrisse Virginia Woolf in Modern Fiction)? L’importanza che Roger Fry ebbe per tutti loro? Il fatto che Vanessa disegnasse le copertine dei romanzi di Virginia, ma che questi fossero poi editi, stampati, legati e pubblicati da loro, da Virginia e Leonard, con la loro macchina da stampa manuale piazzata in salotto, col giovane Lehman ad aiutarli?
E che tutto questo arrivò tanto dopo, dopo il 1922, quando già la Terra Desolata di Eliot e i Cantos di Pound erano stati scritti, quando la prima terribile Guerra era già stata e li aveva sconvolti, sfoltiti, cambiati. E che quando invece Vanessa e Dora ritraevano gli amici nella casa di Bloomsbury e Virginia e Vanessa davano cene, erano ancora le sorelle Stephen, ché avrebbero solo poi sposato Woolf e Bell, eppure condividevano il nuovo, e l’arte, con alcuni tra i più grandi pensatori del secolo, alla pari, con la stessa dignità dei compagni di sesso maschile in un contesto tutto volto alla ricerca di una nuova rappresentazione del vero. Tutte cose che peraltro Lea Vergine conosce bene visti i suoi studi, i suoi lavori. Ma che purtroppo non riesce a comunicare e così, tutto questo, appunto, lo dovrete solo “provare a immaginare.” 

venerdì 18 maggio 2012

Antonio Pagliaro, La notte del Gatto nero


La notte del Gatto nero, l’ultimo romanzo di Antonio Pagliaro, toglie il fiato. No, non lo dico in senso figurato, lo fa davvero, tanto che a più riprese ho dovuto chiudere il volume per riprendere a respirare e tornare a illudermi che quelle pagine fossero solo finzione.
La storia che ci racconta è semplice, fatta di persone comuni, come i nostri vicini di casa, i nostri colleghi. Come noi. E quello che capita loro ci sembra impossibile, inaccettabile, inverosimile, perché ci illudiamo che quanto capita loro sia riservato a disgraziati, delinquenti, poco di buono. Viviamo nella serena convinzione che proseguendo dritti sul nostro sentiero ben tracciato, senza far nulla di male, pagando le tasse, rispettando il prossimo, nulla di male potrà accaderci, rimarremo sempre “in carreggiata” e avanzeremo sereni trovando al massimo qualche buca nel sentiero. 
Eppure Pagliaro lo diceva già nel suo secondo romanzo I cani di via Lincoln: "quando nessuno è innocente fare giustizia non è possibile". Ed è così: nessuno è innocente perché chiunque può diventare colpevole, dall’oggi al domani, nel giro di un minuto. E poco importa se lo sia davvero o meno, lo diventerà. In un paese come l’Italia, infatti, dimostrare la propria innocenza è quasi impossibile: le false notizie si diffondono velocemente mentre la realtà arranca a fatica. E questo romanzo ce lo dimostra senza troppe accuse, senza retorica. È così che un professore qualunque, padre di un bravo ragazzo qualunque, perde ogni innocenza nel momento in cui il figlio viene arrestato senza spiegazioni. 
Pagliaro, con il classico stile asciutto e tagliente che lo contraddistingue, questa volta senza nemmeno il balsamo dell’ironia cui ci ha sempre abituati, ci mostra cosa accadrebbe a ognuno di noi, persona semplice, onesta, innocente, qualora inciampasse in una buca imprevista che lo facesse uscire di strada. Una volta fuori dal sentiero rientrarci è impossibile. La situazione che si presenta a Giovanni una volta che il figlio viene incarcerato è Kafkiana, ricorda a tratti Il Processo, ma manca quell’aspetto onirico che ci fa tirare il fiato alla fine dei racconti di Kafka rassicurandoci che “tutto questo è impossibile”. Ciò che accade a Giovanni è invece spaventosamente possibile, anzi plausibile, e questo, come dicevo, toglie il fiato. Fa paura riflettere su quello che ci mostra Pagliaro, il quale scosta la bella tendina posta davanti alla realtà per farci dormire tranquilli, quella tendina che ci fa credere che se non si farà nulla di male, nulla di male accadrà, e che comunque ci sarà qualcuno a difenderci: lo stato, un avvocato, la legge. 
Svelandoci la realtà nella sua crudezza Pagliaro ci mostra anche la corruttibilità del genere umano, persino di quello migliore, che quando è colpito nell’istinto (e quale istinto è più forte della difesa del proprio figlio?) si perde completamente. Una faticosa riflessione, una dura presa di coscienza, che Pagliaro ci fa condurre con passo fermo e sicuro accompagnandoci attraverso un racconto misurato, magistralmente costruito e condotto, destinato a lasciare un segno nell’animo del lettore.

mercoledì 18 aprile 2012

Sliding dolls

"our one existence is really countless existences
holding hands like those cut-out paper dolls,
but unlike the dolls never coming to an end"
Un paio di giorni fa ero in palestra - per una bizzarra e rara coincidenza di eventi - e mi sono trovata a fare stretching dopo una seduta di addominali guardando fuori dalla finestra con un sottofondo musicale di pioggia equatoriale.
Non so bene perché ma ho ripensato a questa frase della Winterson e ho capito che una di quelle bamboline della mia vita ora sta facendo questo.
Cosa sarebbe successo se fossi partita per l'Erasmus? Non ci sono andata consapevole della mia scelta, risparmiando parecchi soldi e laureandomi in corso, il che non sarebbe stato possibile con l'Erasmus sfigato e x figli di papà proposto dallo IULM.
E cosa sarebbe successo se non mi fossi innamorata e fidanzata a 17 anni? O se fossimo stata una di quelle coppie che vivono anche a distanza, senza vedersi e sentirsi più volte al giorno?
Penso che una delle bamboline della mia vita sia lì, a Cambridge, a studiare in università o a Cork, a lavorare in un pub. Credo che quella bambolina, ora, abbia molto più tempo x sé rispetto a quanto ne ho io. Certamente fa ancora danza classica. Quasi certamente fa yoga, con molta probabilità segue una dieta salutare, povera di carboidrati, una di quelle per le quali devi avere un sacco di tempo.
Quella me forse ha fatto carriera, parla un inglese migliore del mio, forse ha un'ufficio in università e magari ha addirittura una cattedra.
Ma quella me non ha un marito, e di certo non ha un figlio.
Avere Dario mi ha fatto capire il senso della vita. Lo dico senza presunzione. Dario mi fa scoprire ogni giorno la meraviglia della vita, lo ha fatto sin dal primo giorno, quando era un piccolo ammasso di cellule che mi metteva sonno affinché il mio corpo non si affaticasse e potesse lavorare per lui, perché lui crescesse dentro di me.
Ricominciare a scoprire il mondo da capo, con lui, è una sorta di miracolo.
E allora, anche se tante volte vorrei più tempo per me, vorrei poter fare cose che invece non posso fare, o vorrei ancora delle opportunità che invece non avrò più, sono convinta che la mia bambolina sia la più fortunata di tutte.

lunedì 26 marzo 2012

Aspettando i Tartari

Ho letto in diverse critiche che nel Deserto dei Tartari, di Dino Buzzati, si parla di esilio, di solitudine. Non sono completamente d'accordo. Sì, si parla di confino, che diventa esilio, qui, perché la Fortezza Bastiani, nella quale è confinato Giovanni Drogo, è lontana da tutto, si potrebbe dire lontana dalla vita. Si parla di solitudine perché Drogo, anche quando può scambiare qualche parola coi compagni, è comunque solo e le parole, i dialoghi, sono vuoti e non portano a nulla.

Ma il sentimento che io vi ho trovato, più forte di qualsiasi altra cosa, è l’attesa. L’immobilità e l’attesa. E in questo ho trovato incredibili somiglianze con la poetica beckettiana. Mentre ne parlavo, un amico ha suggerito un possibile Aspettando i Tartari, e devo ammettere che sarebbe un titolo alquanto calzante.

Certo, si potrebbe obiettare che Aspettando Godot fu composto nel 1956, mentre Buzzati scrisse Il deserto dei Tartari nel 1940, ma io non sto parlando di copia, di ispirazione di un’opera dall’altra. Sto parlando di un comune sentire, negli stessi anni, qui come altrove, della condizione dell’uomo come impotente, circondato dal nulla, anzi, sepolto nel proprio destino, cementato, come la protagonista di Happy Days, di Beckett, sempre più sprofondata nel palcoscenico e blaterante un monologo che dovrebbe essere dialogo, dato che alle sue spalle si trova il marito, che però legge il giornale e non le rivolge mai nemmeno uno sguardo. Drogo è, allo stesso modo, sepolto e cementato nel suo destino – la Fortezza – e per sopravvivere si crea delle illusioni, delle false speranze, si crea un’attesa di un qualcosa che non arriverà perché non esiste – i Tartari quindi come Godot.

Come per il salice di Godot la scena è sempre la stessa, la Fortezza, la Ridotta e nient’altro. E i personaggi parlano fra di loro, aspettano, sperano che il nemico arrivi, che si faccia una guerra, ma ciò che si dicono non è di nessuna importanza, riempie degli spazi e nient’altro, al pari dei dialoghi di Estragon e Vladimir. Mi si permetta un’ultima analogia, forse un po’ azzardata. Nel 1940 Buzzati sceglie di far indossare ai suoi personaggi delle divise militari, sebbene la guerra non la faranno mai. Nel 1956 Beckett vestirà i suoi due personaggi da clown. Si tratta pur sempre, in qualche modo, di uniformi, di vincoli entro i quali i personaggi sono inquadrati e devono muoversi. Come i militari di Buzzati non fanno la guerra così i clown di Beckett non fanno ridere, e in questo modo non solo le aspettative dei personaggi sono tradite ma anche quelle dei lettori (o spettatori).

Alla fine, però, alla Fortezza i nemici arrivano, proprio quando Drogo non sarà più in forze per affrontarli e l’unico pensiero sarà un’allusione al suicidio, come il tentativo di Estragon e Vladimir che però rimanderanno, come sempre, all’indomani.

Mi è davvero piaciuto: per la prima volta ho letto un romanzo di un italiano in sintonia col sentire europeo, sebbene la novità della poetica sia mascherata in uno stile tradizionale che potrebbe ingannare ad una lettura veloce e superficiale. Eppure lampi di novità sono visibili, come l’inizio del capitolo 17:

Fino a che la neve sulle terrazze della Fortezza diventò molle e i piedi affondavano come nella melma.

Un inizio in medias res che non potrebbe farci capire meglio che tutti lunghi mesi dell’inverso sono trascorsi, e che nulla è accaduto. Un procedimento a togliere, così deliziosamente modernista. Sono tanto poco abituata a leggere buoni italiani che più volte, nel corso della lettura, mi sono chiesta chi fosse il traduttore, per poi schiaffeggiarmi moralmente da sola. Probabilmente gran parte degli italiani hanno già letto e magari riletto quest’opera. Chi non lo avesse ancora fatto lo faccia, non se ne pentirà.

lunedì 13 febbraio 2012

V. Woolf, Notte e Giorno

Letto e recensito nel 2004... quanti anni, quante parole in mezzo.

Una lettura difficile e forse per questo poco nota e poco indagata. Non per lo sperimentalismo, quasi assente in queste pagine, ma per la difficoltà di penetrare nella compattezza delle coscienze narrate dalla Woolf.

La storia, semplice, come sempre, è una storia d’amore, in apparenza, di conoscenza di sé, di fatto. Katharine Hilbery, giovane donna dalla bellezza romantica e nipote di un celebre poeta inglese è la protagonista alla ricerca di sé. Da questo punto di vista si può, con un azzardo, considerare un Bildungsroman, poiché Katharine nella prima parte del romanzo si cerca ma svogliatamente, subisce le emozioni altrui con la forza della propria ragione, un raziocinio raffinato che poco si addice ad una donna dell’alta borghesia quale lei è. Si fidanza con William Rodney, giovane aspirante letterato, innamorato più dell’aura romantica che ella infonde che di ciò che lei è in realtà, e stringe una particolare amicizia, che inizia in forma di astio reciproco, con un giovane avvocato squattrinato di un quartiere di periferia, Ralph Denham, il quale non tarderà ad innamorarsi di lei.

Il racconto indugia sui loro rapporti, complessi e irrazionali quelli fra Ralph e Katharine, imposti, falsi e superficiali quelli fra Katharine e William, che si andranno a concludere in maniera prevedibile, perché non è il plot ciò che interessa la narratrice. Così il romanzo, che per le tematiche di intrecci amorosi potrebbe ricordare un’opera di Jane Austen, se ne distanzia per l’analisi dettagliata e affatto umoristica che la Woolf compie sulle coscienze dei suoi personaggi. Katharine finirà col comprendere che il suo amore è per la matematica e non per la poesia e troverà in Ralph un animo disposto ad accettare questa sua “propensione alla bruttezza”, come la definisce sua madre. William troverà una donna pronta alla totale abnegazione, a pendere dalle sue labbra e a donare amore accettando di venire istruita.

Sullo sfondo le lotte per il suffragio femminile (il romanzo esce nel 1918, anno in cui le donne ottengono il diritto al voto in Inghilterra), portate avanti da un personaggio affascinante, Mary Datchet, che finirà col preferire il lavoro all’amore (ripeto, siamo nel 1918, non era una scelta facile né tantomeno comune); il graduale sfaldamento della borghesia, aggrappata a falsi valori destinati a scomparire; le incomprensioni fra i sessi, tanto più complesse in anni in cui la donna e l’uomo erano davvero opposti come la notte e il giorno.

Un romanzo che è un sottilissimo e delicato gioco di luci e ombre, di opposti che si attraggono e si respingono reciprocamente. Lo stile è perfetto, come sempre. Solo il ritmo è pesante da portare avanti e si avverte il tentativo di ricerca, quello sforzo di dare forma a mille pensieri che arriverà a compimento solo più tardi.

Un’opera complessa, in realtà, che mi sento di consigliare solo a chi già ama e conosce Virginia Woolf, poiché poco ha a che fare col puro sperimentalismo di Al faro, Mrs. Dalloway o Le Onde.

venerdì 10 febbraio 2012

Nonsolo Virginia

Chi sono gli intellettuali? Come si riconoscono? Nel suo piccolo e intelligente gioiello di humour A caccia di intellettuali, Leonard Woolf descrive 5 specie di intellettuale:

1. Altifrons altifrontissimus

2. Altifrons aestheticus var. severus

3. Altifrons frankauensis

4. Pseudoaltifrons intellectualis

5. Pseudoaltifrons aestheticus

Già i nomi sono uno spasso. Ogni specie di intellettuale elencato ha, secondo Woolf, un diverso rapporto con l’opera d’arte, con l’intelletto, con le emozioni, con la lettura.

La base della discussione è il valore di un’opera d’arte. Domanda più che attuale: un capolavoro è un’opera letta dal 99% dei lettori o un’opera letta da pochi altifrons ma destinata a durare in eterno? E soprattutto, le più grandi opere letterarie della storia (La Divina Commedia, l’Eneide, Alla Ricerca del tempo perduto… per intenderci) sono scritte per divertire il pubblico? E il pubblico si diverte leggendole?

La risposta chiaramente è negativa a tutti e tre i quesiti, ma Leonard si interroga e cerca questa risposta come cercasse una rilevanza scientifica a qualche esperimento che si trova bell’e fatto sul tavolo. Chiaramente nessuno legge la Commedia per cercarvi storie e personaggi dilettevoli, per passare una serata in relax con una lettura accattivante. E soprattutto, chiunque è in grado di definire la Divina Commedia come una delle maggiori opere letterarie mai scritte, ma il 99% di queste persone non l’ha mai letta fino in fondo e il 95% non l’ha probabilmente mai nemmeno tenuta fra le mani. Di contro ci sono le opere degli autori best-sellers, che in una settimana sono alla terza edizione ma dei quali si sarà persa ogni traccia nel giro di pochi anni.

Davvero bella, poi, la distinzione fra divertimento dovuto alla storia e divertimento intellettuale, quale si ha solo dai classici e dai capolavori che richiedono, però, anche più fatica. Ma Leonard qui cita Jane Austen, che scrisse dei capolavori profondi e al contempo fruibilissimi dimostrando che letteratura alta non è sinonimo di incomprensibile o noioso.

Aggiungo una riflessione personale, che emerse all’inizio del mio dottorato.

Cos’è la letteratura? Come la riconosco da una buona opera letteraria, divertente e di successo?

La letteratura punta sempre a migliorare l’uomo, ha questo obiettivo implicito o esplicito, indagare l’animo umano al fine di migliorarlo, il resto è semplice lettura.

Facile, non è vero?