lunedì 13 febbraio 2012

V. Woolf, Notte e Giorno

Letto e recensito nel 2004... quanti anni, quante parole in mezzo.

Una lettura difficile e forse per questo poco nota e poco indagata. Non per lo sperimentalismo, quasi assente in queste pagine, ma per la difficoltà di penetrare nella compattezza delle coscienze narrate dalla Woolf.

La storia, semplice, come sempre, è una storia d’amore, in apparenza, di conoscenza di sé, di fatto. Katharine Hilbery, giovane donna dalla bellezza romantica e nipote di un celebre poeta inglese è la protagonista alla ricerca di sé. Da questo punto di vista si può, con un azzardo, considerare un Bildungsroman, poiché Katharine nella prima parte del romanzo si cerca ma svogliatamente, subisce le emozioni altrui con la forza della propria ragione, un raziocinio raffinato che poco si addice ad una donna dell’alta borghesia quale lei è. Si fidanza con William Rodney, giovane aspirante letterato, innamorato più dell’aura romantica che ella infonde che di ciò che lei è in realtà, e stringe una particolare amicizia, che inizia in forma di astio reciproco, con un giovane avvocato squattrinato di un quartiere di periferia, Ralph Denham, il quale non tarderà ad innamorarsi di lei.

Il racconto indugia sui loro rapporti, complessi e irrazionali quelli fra Ralph e Katharine, imposti, falsi e superficiali quelli fra Katharine e William, che si andranno a concludere in maniera prevedibile, perché non è il plot ciò che interessa la narratrice. Così il romanzo, che per le tematiche di intrecci amorosi potrebbe ricordare un’opera di Jane Austen, se ne distanzia per l’analisi dettagliata e affatto umoristica che la Woolf compie sulle coscienze dei suoi personaggi. Katharine finirà col comprendere che il suo amore è per la matematica e non per la poesia e troverà in Ralph un animo disposto ad accettare questa sua “propensione alla bruttezza”, come la definisce sua madre. William troverà una donna pronta alla totale abnegazione, a pendere dalle sue labbra e a donare amore accettando di venire istruita.

Sullo sfondo le lotte per il suffragio femminile (il romanzo esce nel 1918, anno in cui le donne ottengono il diritto al voto in Inghilterra), portate avanti da un personaggio affascinante, Mary Datchet, che finirà col preferire il lavoro all’amore (ripeto, siamo nel 1918, non era una scelta facile né tantomeno comune); il graduale sfaldamento della borghesia, aggrappata a falsi valori destinati a scomparire; le incomprensioni fra i sessi, tanto più complesse in anni in cui la donna e l’uomo erano davvero opposti come la notte e il giorno.

Un romanzo che è un sottilissimo e delicato gioco di luci e ombre, di opposti che si attraggono e si respingono reciprocamente. Lo stile è perfetto, come sempre. Solo il ritmo è pesante da portare avanti e si avverte il tentativo di ricerca, quello sforzo di dare forma a mille pensieri che arriverà a compimento solo più tardi.

Un’opera complessa, in realtà, che mi sento di consigliare solo a chi già ama e conosce Virginia Woolf, poiché poco ha a che fare col puro sperimentalismo di Al faro, Mrs. Dalloway o Le Onde.

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