lunedì 26 marzo 2012

Aspettando i Tartari

Ho letto in diverse critiche che nel Deserto dei Tartari, di Dino Buzzati, si parla di esilio, di solitudine. Non sono completamente d'accordo. Sì, si parla di confino, che diventa esilio, qui, perché la Fortezza Bastiani, nella quale è confinato Giovanni Drogo, è lontana da tutto, si potrebbe dire lontana dalla vita. Si parla di solitudine perché Drogo, anche quando può scambiare qualche parola coi compagni, è comunque solo e le parole, i dialoghi, sono vuoti e non portano a nulla.

Ma il sentimento che io vi ho trovato, più forte di qualsiasi altra cosa, è l’attesa. L’immobilità e l’attesa. E in questo ho trovato incredibili somiglianze con la poetica beckettiana. Mentre ne parlavo, un amico ha suggerito un possibile Aspettando i Tartari, e devo ammettere che sarebbe un titolo alquanto calzante.

Certo, si potrebbe obiettare che Aspettando Godot fu composto nel 1956, mentre Buzzati scrisse Il deserto dei Tartari nel 1940, ma io non sto parlando di copia, di ispirazione di un’opera dall’altra. Sto parlando di un comune sentire, negli stessi anni, qui come altrove, della condizione dell’uomo come impotente, circondato dal nulla, anzi, sepolto nel proprio destino, cementato, come la protagonista di Happy Days, di Beckett, sempre più sprofondata nel palcoscenico e blaterante un monologo che dovrebbe essere dialogo, dato che alle sue spalle si trova il marito, che però legge il giornale e non le rivolge mai nemmeno uno sguardo. Drogo è, allo stesso modo, sepolto e cementato nel suo destino – la Fortezza – e per sopravvivere si crea delle illusioni, delle false speranze, si crea un’attesa di un qualcosa che non arriverà perché non esiste – i Tartari quindi come Godot.

Come per il salice di Godot la scena è sempre la stessa, la Fortezza, la Ridotta e nient’altro. E i personaggi parlano fra di loro, aspettano, sperano che il nemico arrivi, che si faccia una guerra, ma ciò che si dicono non è di nessuna importanza, riempie degli spazi e nient’altro, al pari dei dialoghi di Estragon e Vladimir. Mi si permetta un’ultima analogia, forse un po’ azzardata. Nel 1940 Buzzati sceglie di far indossare ai suoi personaggi delle divise militari, sebbene la guerra non la faranno mai. Nel 1956 Beckett vestirà i suoi due personaggi da clown. Si tratta pur sempre, in qualche modo, di uniformi, di vincoli entro i quali i personaggi sono inquadrati e devono muoversi. Come i militari di Buzzati non fanno la guerra così i clown di Beckett non fanno ridere, e in questo modo non solo le aspettative dei personaggi sono tradite ma anche quelle dei lettori (o spettatori).

Alla fine, però, alla Fortezza i nemici arrivano, proprio quando Drogo non sarà più in forze per affrontarli e l’unico pensiero sarà un’allusione al suicidio, come il tentativo di Estragon e Vladimir che però rimanderanno, come sempre, all’indomani.

Mi è davvero piaciuto: per la prima volta ho letto un romanzo di un italiano in sintonia col sentire europeo, sebbene la novità della poetica sia mascherata in uno stile tradizionale che potrebbe ingannare ad una lettura veloce e superficiale. Eppure lampi di novità sono visibili, come l’inizio del capitolo 17:

Fino a che la neve sulle terrazze della Fortezza diventò molle e i piedi affondavano come nella melma.

Un inizio in medias res che non potrebbe farci capire meglio che tutti lunghi mesi dell’inverso sono trascorsi, e che nulla è accaduto. Un procedimento a togliere, così deliziosamente modernista. Sono tanto poco abituata a leggere buoni italiani che più volte, nel corso della lettura, mi sono chiesta chi fosse il traduttore, per poi schiaffeggiarmi moralmente da sola. Probabilmente gran parte degli italiani hanno già letto e magari riletto quest’opera. Chi non lo avesse ancora fatto lo faccia, non se ne pentirà.

Nessun commento:

Posta un commento