sabato 3 novembre 2012

Un altro tempo

Oggi siamo stati al Mart di Rovereto, per “godere” della mostra ideata da Lea Vergine “Un altro tempo. Tra Decadentismo e Modern Style”.

Se andate sul sito del Mart la mostra è presentata in primo luogo attraverso un Pinterest che fa sognare. Poi vi dicono:

Provate un po’ a immaginare una situazione così: Virginia Woolf ricama a punto-non-so-che-cosa lo schienale di una seggiola, su disegno progettato da Duncan Grant mentre sua sorella Vanessa Bell disegna per lei la copertina di The Waves intanto che Percy Wyndham Lewis, tra un Blast e l'altro, dipinge il ritratto di Edith Sitwell fotografata con i suoi fratelli da Cecil Beaton.

Ecco, forse ci si dovrebbe soffermare sulla scelta delle parole “provate un po’ a immaginare”. Perché è quello che dovrete continuare a fare: immaginare, dato che alla mostra non vedrete nulla di simile. Io conosco poco l’arte, ma conosco bene Virginia Woolf, e Bloomsbury, e Vanessa Bell. E a parte il fatto che deve essermi sfuggita, durante la lettura dei 5 volumi dei diari e degli altrettanti volumi di lettere, questa passione di Virginia per il ricamo, trovo che la mostra non abbia affatto reso giustizia a quello che fu un movimento di totale rinnovamento intellettuale, culturale e sociale e che partì proprio dall’arte.

“Un altro tempo” è composta da sculture, dipinti e disegni, ma anche da oggetti d’uso, grafica editoriale, libri, fotografie e arredi. Sono oggetti quasi del tutto sconosciuti fuori dall’Inghilterra, e soprattutto esposti ora per la prima volta.
L’interesse di queste opere non sta solo nel loro valore artistico, ma anche nella capacità di evocare emozioni e sensazioni che appartengono appunto a “un altro tempo”.

Sì, oggetti quasi sconosciuti, qualche sedia, bozzetti di tappeti, paraventi, tavolini, due sdraio realizzate da Ezra Pound. E poi foto, tante foto, ma già note a chi frequenta questi nomi. E qualche quadro, sì, ma solo nella prima stanza si vedono pezzi interessanti, come il celebre ritratto di Lytton Stratchey a opera di Dora Carrington o l’autoritratto di Roger Fry.
Quello che più mi colpisce, alla luce di quanto ho visto alla mostra, è quanto segue:

“Una mostra non si fa solo per guardare e vedere ma anche per sapere” scrive Lea Vergine: l’ambizione di “Un altro tempo” è quella di portare a conoscenza del pubblico un mondo mai considerato dalla storia dell’arte, ed oggi in parte scomparso, in cui le connessioni tra gli artisti sono spesso sorprendenti.

Ecco: mi spiace, ma no. Non ci siete riusciti. Chi non sapeva nulla di Bloomsbury continua a non saperne nulla dopo la mostra. Che manca di didascalie, fornite su di un piccolo foglio in un angolo della stanza, recanti solo autore e titolo dell’opera, e che lo spettatore si deve ricostruire (col risultato che alla terza stanza la gente nemmeno curiosava più e tirava dritto). Non una parola d’introduzione, non una riga di spiegazione.
Forse l’audioguida era fondamentale? Allora datela in automatico, o quantomeno caldeggiatela al momento dell’acquisto dei biglietti. Io non volevo distrazioni, volevo perdermi nelle foto, nelle lettere, nei bozzetti, negli oggetti di Virginia, Vanessa, Duncan, Clive, Wyndham, Ezra, Tom. E invece cercavo, speravo e trovavo ben poco. Quante cose da raccontare su quel gruppo, quanto hanno cambiato il mondo quei ragazzi che sedevano per terra e bevevano caffè al posto del tè, e mangiavano su tavoli senza tovaglie. Ma nulla, nessun riferimento, se non due (peraltro splendidi) menù di due cene dell’Omega Workshop. Messi lì senza contesto, così che vanno quasi persi.

Si parla anche di un

allestimento d’eccezione, ideato da Antonio Marras e curato da Paolo Bazzani, avrà il compito non di offrire un supporto alla mostra ma piuttosto di far rivivere questo “altro tempo” nell’esperienza soggettiva del visitatore. L’idea di Marras è quella di inserire le opere in un contesto estetico che evoca una casa londinese di Bloomsbury. Entrando in mostra attraverso uno stretto corridoio, si accede ad una serie di stanze dove sfondi e mobili sono verniciati con una curatissima palette di colori caldi e “molto polverosi”, secondo le indicazioni di Marras. Questo allestimento darà al visitatore la possibilità di immaginare e ricostruire quel tessuto di relazioni che rappresenta il vero cuore di “Un altro tempo”.

Sì, le stanze sono davvero belle, tutte monocromatiche, a tinte interessanti, calde, che riescono a ricordare al contempo Marras e Londra. Ma i contenuti? I riferimenti a ciò che fu per loro il 1910, quando “in or about December 1910 human nature changed” (come scrisse Virginia Woolf in Modern Fiction)? L’importanza che Roger Fry ebbe per tutti loro? Il fatto che Vanessa disegnasse le copertine dei romanzi di Virginia, ma che questi fossero poi editi, stampati, legati e pubblicati da loro, da Virginia e Leonard, con la loro macchina da stampa manuale piazzata in salotto, col giovane Lehman ad aiutarli?
E che tutto questo arrivò tanto dopo, dopo il 1922, quando già la Terra Desolata di Eliot e i Cantos di Pound erano stati scritti, quando la prima terribile Guerra era già stata e li aveva sconvolti, sfoltiti, cambiati. E che quando invece Vanessa e Dora ritraevano gli amici nella casa di Bloomsbury e Virginia e Vanessa davano cene, erano ancora le sorelle Stephen, ché avrebbero solo poi sposato Woolf e Bell, eppure condividevano il nuovo, e l’arte, con alcuni tra i più grandi pensatori del secolo, alla pari, con la stessa dignità dei compagni di sesso maschile in un contesto tutto volto alla ricerca di una nuova rappresentazione del vero. Tutte cose che peraltro Lea Vergine conosce bene visti i suoi studi, i suoi lavori. Ma che purtroppo non riesce a comunicare e così, tutto questo, appunto, lo dovrete solo “provare a immaginare.” 

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